La legge è uomo: dal delitto d’onore al reato di femminicidio

di Dalila Scagliusi

Se è vero che le norme di una generazione possono modellare la morale della generazione successiva, quali progressi sono stati fatti in quasi cento anni di legislazione, dal Codice Rocco ad oggi?

Un barone siciliano, Ferdinando Cefalù, si innamora di Angela, una cugina sedicenne che lo ama a sua volta. C’è, però, un ostacolo al coronamento del sogno: Rosalia, la moglie di lui. È questa la cornice tragicomica di Divorzio all’italiana (1961), film di Pietro Germi che mette alla berlina il così detto “delitto d’onore”, un reato previsto dall’ordinamento italiano che consentiva ad un uomo di uccidere la propria donna – moglie, figlia o sorella che fosse – nel caso in cui questa avesse arrecato “un’offesa all’onor suo o della famiglia”. La pena? Il carcere, fino ad un massimo di sette anni; come se la vita di una donna valesse quanto un anno di vita di un cane.

Marcello Mastroianni interpreta Ferdinando Cefalù in “Divorzio all’italiana” (1961)

Se si legge il testo del Codice Rocco e se si considera l’anno in cui è stato redatto – 1930, in piena epoca fascista – ci si stupisce poco. Concepiti in un’epoca fortemente patriarcale, sia il codice penale che quello civile si reggevano (e in parte si reggono ancora) su un impianto antropocentrico e sessista. L’uomo era – ed è – unico metro di paragone del giusto e del virtuoso. Basti pensare ai numerosi articoli in materia di obbligazioni che prevedono che, nel pagare il proprio debito, il soggetto (chiaramente uomo) debba usare la diligenza del buon padre di famiglia. La madre? Evidentemente, quando è stato redatto il codice, era troppo impegnata a crescere i figli e a far trovare al marito, di ritorno da una stancante giornata di lavoro, la cena pronta a tavola.

In un’epoca in cui le donne erano relegate al focolare, non potevano gestire soldi o fare affari, la scelta del legislatore appare abbastanza chiara, quasi scontata. Il valore di ciascuna donna era legato alla dote e alla verginità come potenziali intrinsechi dell’essere donna.

Proprio questi due elementi autorizzavano un uomo ad uccidere una donna se lei avesse infangato il suo onore, a tradire la moglie adultera e a prenderne un’altra, una concubina, senza essere punito. Insomma, il codice si basava sul rispetto di una gerarchia ben precisa, su ruoli familiari e sociali compartimentati. Meno emblematico del delitto d’onore, era il caso del reato di adulterio che puniva severamente le donne che tradivano il marito, mentre per l’uomo l’infedeltà era reato solo se “scandalosa” o “notoria” e consumata “more uxorio” con un’amante fissa.

Walker, criminologo e giurista inglese, verso la fine degli anni ’70 scriveva che “la legislazione di una generazione può divenire la morale della generazione successiva”. Allora, se davvero le leggi dei padri possono modellare la visione dei figli non stupisce che, considerate le norme penali del recente passato, la società di oggi sia ancora impregnata di maschilismo.

Tuttavia, dai tempi del Codice Rocco, in cui la donna era considerata proprietà dell’uomo e la violenza veniva minimizzata o giustificata, la sensibilità sociale ha compiuto passi significativi.

Nel 1981, il Parlamento ha abrogato il “delitto d’onore”; nel 1996 la violenza sessuale è passata da essere inserita nella sezione dei reati contro la morale pubblica a quella dei reati contro la persona.

Nel 2009, il decreto legge n.11 ha introdotto il reato di “atti persecutori” rendendo punibili tutti quegli atteggiamenti vessatori che portano una donna a modificare le proprie abitudini di vita per l’ansia o per la paura che un “prossimo congiunto” o un partner possa farle del male. Ancora, nel 2013 sono state inserite nel codice penale nuove aggravanti contro la violenza di genere e una legge ha previsto lo stanziamento di 10 milioni per la prevenzione, l’educazione e la formazione e per promuovere centri-rifugio per le vittime. Nel 2019 il “Codice Rosso” ha rafforzato il sistema di protezione delle vittime di violenza con tempi di intervento più rapidi da parte delle autorità e con l’introduzione di nuovi reati, tra cui quello di revenge porn.

Da ultimo, lo scorso 7 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che propone di introdurre il reato di “femminicidio” nel codice penale. La proposta prevede che chiunque uccida una donna “in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità” sia condannato all’ergastolo. Se dovesse essere approvata, la legge renderebbe il femminicidio un reato autonomo, punito con una pena di gran lunga superiore a quella prevista dall’articolo 575 del codice penale in caso di omicidio (minimo 21 anni di carcere). Il disegno di legge propone, poi, che le circostanze con cui è commesso il reato siano considerate come aggravanti, ossia come motivazioni per aumentare la pena – già prevista nel suo massimo. I pubblici ministeri, inoltre, sarebbero obbligati ad ascoltare personalmente le vittime di violenza, senza la possibilità di delegare l’audizione alla polizia giudiziaria.

Nonostante il disegno di legge abbia l’obiettivo di arginare e combattere le discriminazioni di genere, c’è un rischio: che si trasformi in uno strumento populistico piuttosto che in un solido intervento giuridico. Introdurre una rubrica specifica sul femminicidio potrebbe avere, infatti, una forte valenza simbolica e comunicativa, ma prevedere pene significativamente più elevate rispetto all’omicidio “comune” solleva interrogativi giuridici e costituzionali. In base all’articolo 27 della Costituzione, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Non vendicare, ma rieducare: è questo il principio cardine di un sistema penale liberale e garantista. Le condanne esemplari possono placare temporaneamente l’emotività collettiva, ma raramente producono effetti culturali e duraturi. Per combattere le discriminazioni di genere sarebbero, probabilmente, più efficaci delle politiche sociali, degli interventi capillari diffusi e stabili, in sostanza un’educazione affettiva.

“Punire di più e subito” non paga e in un contesto così delicato, il rischio sarebbe quello di cedere alla scorciatoia repressiva, senza affrontare alla radice le cause culturali e strutturali della violenza di genere.

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